I play-boys

Varie

Giampaolo Marseglia

da Napoli, domenica 2 agosto 2020 alle ore 00:11:10

Non erano boys, però effettivamente giocavano, e nel gioco tutti si divertono, anche i perdenti o ‘le perdenti.’ Leggo oggi rievocazioni di quella specie maschile come un genere estinto e superficiale, ma sono articoli di chi non li conobbe. Sono articoli di chi non ha mai ritenuto la vita talmente preziosa da volerne assaporare ogni minimo regalo naturale, a costo di farsi giudicare con malanimo e pregiudizio.

Non a caso questa particolare categoria di giovani signori ebbe il suo momento di gloria nel dopoguerra e nella generale euforia che seguì la fine dei conflitti, allorché era indispensabile tradurre tutto in gratitudine, buonumore e leggerezza.

D’accordo: vi furono amanti libertini storici come Casanova e don Juan, e a fine ‘800 una lunga sequela di nomi ai quali si potrebbe aggiungere Gabriele d’Annunzio, maestro della seduzione, benché bruttino e sostenuto principalmente dalla sua personalità, e Raimondo Lanza di Trabia, il quale finì col suicidarsi allorché non si divertiva più. Io preferisco ricordare quelli che conobbi, non per adularli o per l’inverso, ma solo per ricordare la mia reazione, a volte negativa e a volte positiva, partendo dal più famoso: ossia Porfirio Rubirosa.

Per quanto mi riguarda vorrei subito sfatare quanto narrano di lui: non era bello e non aveva particolari modi da seduttore. Era divertente, arguto, con pronte battute per ogni argomento ma era rozzo, non gentile, assetato e famelico nella sua arrampicata sociale e nel suo opportunismo sfrenato, ragione per cui i suoi occhi cercavano incessantemente le persone più note o ricche da avvicinare.

Mi invitò a ballare (ad un ballo Volpi, a Venezia) e mi dispiacque il suo modo violento di stringermi e dare per scontato che gradissi quelle maniere da toro per corride. Fu una lotta ballerina, durante la quale io spingevo staccandomi e lui faceva forza schiacciandomi. Gli dissi: “Lei non è elegante e non è un signore.” E lui: “Non ho mai preteso di essere un galantuomo.”

Era indubbiamente un avventuriero, ma privo del tutto di fascino, allegria e di quella alchimia elettrica di attrazione propria invece dell’uomo che assapora avidamente l’attimo sfuggente, cogliendo i frutti che trova ma soprattutto condividendoli. Il suo ego era lontano e avvolto su se stesso come il mallo della noce. Non condivideva un bel niente. Ripassando la sua biografia vedo che ha sedotto e sposato solo donne ricche o potenti, e che forse l’unica ‘normale’ è stata la sua ultima compagna, Odile Rodin.

Saltando nel tempo, ricordo di essere stata l’ultima persona che lo ha visto vivo, e non è un bel ricordo: fu a Parigi, nel ‘65, dopo una nottata con amici nei diversi locali, quando al rientro in albergo desideravo un caffelatte ma la cucina era chiusa; mancava poco all’alba e pensai di aspettare in un locale delle vicinanze dove si esibivano dei mariachi messicani. Il locale era semivuoto, forse era Le Calvados ma non ne sono certa, e i messicani cantavano ancora.

Stavo per sedermi da sola quando un tizio mi fece un cenno da un tavolo. Era uno dei pochi avventori presenti, rimasto dopo una festa, e mi accorsi che si trattava di Rubirosa. Lo raggiunsi e vidi che era ubriaco fradicio. Parlava per sé e con se stesso brontolando cose di cui non capivo niente. Afferrai solo: “Ho la macchina qui fuori: vuoi farti un giro con me?” Risposi: “No, grazie” e mi diedi alla fuga, uscendo dal locale.

Per farla breve: mi sono salvata da morte sicura perché quando Rubirosa, alle 7 del mattino, si mise al volante della sua Ferrari andò a schiantarsi contro un albero al Bois de Boulogne e finì così la sua vita terrena. Lavoravo allora per un settimanale e mi dissero di seguire i funerali e la sepoltura, cosa che feci osservando i dolenti. La più sconvolta era Regine e non sua moglie Odile. Pioveva ed ebbi l’impressione che tutti volessero tornare in fretta a casa propria. No, non era davvero uno che ‘giocava’ con la vita, ma uno che sfidava la vita, il che è diverso. Resto convinta che il titolo di capo supremo dei play boys, che oggi gli viene conferito, sia errato ed abusivo.

Gli altri? Direi che le caratteristiche dei più erano magnetismo, gioia di vivere, sensualità, partecipazione, umorismo e dichiarata precarietà come eventuali compagni fissi. Alcuni nomi? Errol Flynn, Giorgio Cini, Baby Pignatari, Dado Ruspoli, Lodovico Lante della Rovere, Renzino Avanzo, Pietro Bruno di Belmonte, ma anche Warren Beatty con la maggioranza degli attori hollywoodiani e francesi, molti giovani attori italiani di bell’aspetto e una lista infinita di nomi ai quali non aggiungo cognome come Ruggero, Tonino, Gianfranco, Maurizio, Angelo, Renato, Paolo, Federico, almeno tre Gigi incluso Gigi Rizzi, alcuni toreri, Moulay, Peter, e più recentemente l’adorabile Gelasio, eppoi tanti baroni siciliani, ma la lista è lunga.

Mi serve ricordarli per le risate, l’impetuosa generosità e l’originalità nell’esprimersi ed agire: seduttori più spesso sedotti, in quanto attiravano subito l’attenzione delle donne, le quali ottenevano di adescarli fingendosi vittime della situazione. Ottimi ballerini perlopiù, e si sa che ballando come usava, ossia in due e abbracciati, si crea il fenomeno magnetico che offre all’uomo la guida ma alla donna la capacità di imporre la propria sensualità anche in maniera imbarazzante per l’uomo che deve contenersi.

Quando questi signori ballavano con Linda Christian, tanto per evocare una figura dolcevitiera, arrossivano addirittura perché Linda non andava per il sottile. Era lei la play girl. Seguono alcuni dettagli ed episodi.

Pietro Bruno di Belmonte si aggirava con il bicchiere mezzo colmo di whisky nel taschino della giacca e provocava i suoi possibili avversari arrivando a risse, la più famosa delle quali avvenne nel locale “Piccolo Slam” in Via Sistina, allorché Pietro prese a pugni Marlon Brando (divo odioso, per la verità). Buttarono per aria il locale e all’uscita Pietro si lamentò: “Quel fanfarone mi ha rotto il bicchiere nel taschino e mi ha rovinato questa giacca di Caraceni!”.

Aveva un labbro rotto ma pensava alla giacca. Si rideva e lui rideva, mentre Brando emetteva ruggiti. Per molti sarebbe stato un minidramma, ma per Pietro fu solo una guasconata che doveva sigillare così. Mi telefona oggi suo figlio, Gigi Bruno di Belmonte, dalla Sicilia, e sospira: “Quanto si rideva allora! Non ho mai più riso tanto in vita mia.” Questo è il punto rilevante: il ridere, sia di se stessi che di ogni evento, anche fortuito o sfortunato.

Baby Pignatari faceva serenate a Linda Christian con piogge di fiori e Los Paraguayos che cantavano con lui, ma si rifiutava di sposarla e Linda lo tradì con De Portago (corridore di F1), al che Baby passò a fare serenate, suonando lui la chitarra, per Ira Furstenberg, chiedendole invece di sposarlo e lei accettò. Fu un matrimonio breve ma credo che Ira si sia divertita più con Baby che con il primo marito, Alfonso Hohenlohe.

Baby era ricco (il suo cognome era anche Matarazzo), spendeva e spandeva ma non lo vidi mai avvilito. Suo figlio Julio lo rimproverava: “Butti via un patrimonio!” e lui: “Mi può venire un infarto tra cinque minuti, a che servono i soldi se non a spenderli? Tu comunque non ti devi preoccupare.” (forse il riferimento era alla madre di Julio, Mimosa Parodi Delfino, la sua prima moglie, a sua volta ricca). Si dichiarava cantando in portoghese brasiliano, era un play man romantico e dolce.

Non posso omettere la figura di Renzino Avanzo, cugino di Roberto Rossellini, figlio di Antonietta Avanzo, la prima corridore donna di F1 in Italia, pioniera in Australia e donna eccezionale. Renzino fece dell’umorismo la chiave e la base della sua vita. Avventuroso e simpatico, da giovane aveva introdotto in Italia il charleston appreso da due sue amiche americane, le “Dolly Sisters.”

Ai balli e ricevimenti danzava con la sorella Luisa (poi Luisa Keckler) e si portava scarpe di ricambio (‘le perline e gli strass delle signore bucano le suole,’ diceva). Nei deserti libici fece amicizia con un suo consimile, Errol Flynn: mentre Flynn cacciava gli zebù per venderne le pelli, Renzino smerciava capocchie di fiammiferi nelle tribù indigene spacciandosi per mago.

Nel tempo Renzino sposò Uberta Visconti, sorella di Luchino, e prese a lavorare anche lui nel cinema. Diresse Stromboli con Anna Magnani, quando questa si separò da Rossellini e nel contempo Rossellini dirigeva Vulcano con Ingrid Bergman – dispetti in famiglia – ma nessuno dei due film ebbe successo. La presenza di Renzino ebbe il potere di rallegrare gli amici, tutti, durante i momenti più drammatici della II guerra mondiale.

Giorgio Cini: era bello, amato furiosamente dalle donne che al solo nominarlo andavano in estasi come santa Teresa d’Avila e in quel di Venezia bisognava tenere i sali a portata di mano. Io ero piccola durante quel suo regno di grande amatore, ma lo amavo anch’io senza eros ma fantasie di un Giorgio che un giorno sarebbe arrivato a rapirmi su un cavallo bianco. Mi bastava stare sulle sue spalle quando faceva l’acquaplano al Lido (prima dello sci d’acqua si faceva l’acquaplano con una tavola), stringevo le ginocchia e in certo senso credevo di vincere sulle sue spasimanti.

Il suo mito in Italia somigliò a quello di Rodolfo Valentino negli USA, anche se di lui si parlava e smaniava anche oltreoceano. Morì nel primo dopoguerra (il ‘45 o ‘46, credo) mentre si esibiva con delle acrobazie su un aereo in Costa Azzurra per la sua bella del momento, che era l’attrice Merle Oberon. L’aereo cadde.

Dado Ruspoli. Di lui si è detto e scritto tanto. Forse non era esatto che girasse per Capri scalzo con un pappagallo sulla spalla, credo fosse un merlo… ma tutto il resto era vero e semmai eufemistico. Anche lui bellissimo, aveva la capacità di addolcire anche le sostanze e le vicende più amare. Oppiomane si diceva. Orientalista e poeta, parlava come un guru.

Vestiva come un pirata ma era l’opposto di un pirata. Non si arrabbiava mai e non sparlava di nessuno. Collezionava amanti adoranti e un paio di mogli. Posso solo dire che non si poteva non voler bene a Dado, almeno se si possedevano i giusti ormoni femminili.

Lodovico Lante della Rovere. Un uragano, fisicamente molto somigliante a Crocodile Dundee. Alto, magrissimo, cinico e arguto, di una intelligenza straordinaria: Lodovico era un guerriero senza bandiera. Lo amavano donne e uomini perché impersonava l’eroe che affrontava l’impossibile. Trascorse buona parte della sua vita in sud America e sulle rive dell’Orinoco, rapì donzelle, esplorò il Mato Grosso familiarizzando con tribù sconosciute che si mangiavano a vicenda e tuttavia trascorse abbastanza tempo a Roma per diventare un mito.

Una volta si sparse la voce nella Capitale che lo avessero ucciso a pugnalate in Venezuela e i locali notturni chiusero per una notte mentre i barman e i dolcevitieri piangevano sconsolati. Non era vero. Riapparve e fece a pugni con Renato Salvatori, riducendo il rivale ad un cencio benchè questi studiasse la boxe per il film di Visconti “Rocco e i suoi fratelli.”

Lo chiamavano l’uomo d’acciaio per via della forza dei suoi nervi e muscoli sotto la pelle tirata. Ma la sua principale sfida era la sincerità e le parole che trafiggevano come coltelli le stupide ciance mondane. Non faceva mistero del fatto che sniffasse cocaina, anche se le autorità italiane gli misero alle calcagna perennemente due agenti di polizia in borghese.

Ero presente ad una cena in casa sua quando fece portare dal maggiordomo un vassoio d’argento con bustine di coca, presenti i due agenti che lui chiamava ‘madame’. “Marchese, non può farci questo!” esclamò uno dei due. E lui: “È vietato lo spaccio, non il consumo, giusto? Prego servitevi, io non spaccio un bel niente, sto regalando!”.

A volte gli agenti mi telefonavano disperati: “Contessa, ci aiuti, il marchese sta creando un putiferio! Sta dirigendo il traffico in Piazza Venezia dopo aver costretto il vigile urbano a scendere dalla pedana e c’è un vero caos di automobili.” Sapevano che ero molto amica di Lodovico e che lui mi ascoltava, cosa che non accadeva con altri, ragione per la quale speravano di sedare il tumulto senza azioni legali. Nel tempo Lodovico è morto in Sud America e si diceva che fosse stato proprio accoltellato. Ma non ne sono convinta.

Sono e resto convinta, come loro del resto, che la vita è breve e che il ridere e l’umorismo siano la medicina migliore per alleggerire ogni fardello. In una delle sue poesie Garcia Lorca inizia dicendo che “Si è spezzato il sole” ed è quanto succede quando ci si tuffa nella notte senza allegria ma soprattutto senza fantasia.

Resto dell’opinione che i veri play men sono stati dei soli (drogati o inaffidabili non importa): per me furono anche inimitabili amici, e peggio per quante si sono illuse di poterli intrappolare. D’accordo Gigi? (non dico quale…)


Olghina de Robilant, ottobre 2012.


 

 

 

 

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