LA POLITICA E' ESTETICA intervista a cura di Francesca Bonazzoli da Vernissage, anno V – n° 47, marzo 2004 Philippe Daverio, ex gallerista, ex assessore e ora professore e conduttore televisivo di successo, dà le sue ricette per il mercato, il turismo "mostristico" e per la sua città. [Ex mercante d’arte, ex assessore alla cultura di Milano (dal 1993 al 1997), attualmente autore del programma televisivo "Passepartout" in onda sulla Rai, docente delle università milanesi di Bovina e Iulm, Philippe Daverio è appena reduce da una serie di conferenze al museo Poldi Pezzoli con un successo da "tutto esaurito".] Philippe Daverio, rifarebbe l’assessore? Se tornassi ad avere 44 anni sì, oggi no. È stata un’esperienza molto interessante, clamorosa, e ho la presunzione che sia stata utile anche alla città, ma alla mia età non si fa più: è come la legione straniera. Ho lavorato quattro anni a un po’ più del tempo pieno; ho fatto fallire la mia galleria; mi sono morti i cavalli in Maremma; guadagnavo 4 milioni e 200 mila lire al mese e in cambio ho fatto 25 miliardi di found raising per il comune di Milano. La militanza va bene una volta nella vita, due no. Perché Roma è tornata una città brillante, capace di trovare sponsor per la cultura, mentre Milano resta grigia? È l’autorevolezza dell’amministrazione che trova il denaro di sostegno. Sebbene fossimo in piena Tangentopoli io facevo raccolta di fondi senza problema; però ci vuole una politica espositiva, una politica dell’istituzione. Parliamo dei musei milanesi. Qual è il migliore? Do un voto molto buono al Poldo Pezzoli perché la conduzione privata consente la vitalità e perché è da sempre stato ancorato alla città. Certo che anche a loro una mossa per aprirsi oltre la città tornerebbe utile. E il peggiore? Il più rallentato di tutti, non il peggiore, quello che ha perso totalmente il contatto con la sua "mission" e il suo "concepì" (bisogna parlare da museologi), non assomiglia più a com’era nato e alla cosa per cui era nato, e non sa neanche più chi è, è il Castello. Attualmente è affrontato come un res nullius da parte di tutti quelli che entrano e poi è anche tenuto come tale: non racconta niente, non fa mostre, non comunica, non parla della storia di Milano. C’è questa collezione di paccottiglia detta "delle armi". Se fosse a Cortona non sarebbe grave, ma nella città che fu la più grande produttrice d’armi del mondo… L’ex direttore del Louvre, Pierre Rosenberg, dice che le mostre nuocciono ai musei… Rosenberg ha ragione solo su una cosa: gli mangiano i fondi. Per il resto le mostre sono la salvezza dei musei. Rosenberg questa cosa non la può dire perché il suo museo è già morto, non è più salvabile: la più bella teca del mondo è diventata un turistodromo. Noi che abbiamo ancora delle teche dobbiamo porci la domanda: questi luoghi dove conserviamo il patrimonio più prezioso della nostra cultura da cinque secoli, luoghi concepiti per affluenze contenute e un pubblico motivato, sono suscettibili di diventare dei turistodromi senza morire? Le mostre hanno il grandissimo vantaggio di consentire dei rapporti flash con il mondo dell’arte. Io vorrei un museo col pavimento scricchiolante e il colloquio personale con l’opera. In molti pensano invece che i musei debbano essere aziende… Siamo a un terzo solo del potenziale turistico del mondo. Fra trent’anni passeremo da 600 milioni a un miliardo e 800 milioni di turisti. Ma lei pensa che gli Uffizi saranno in grado di affrontare questo shock? Crede che i sei gatti interessati veramente a guardare Tiziano, possano ancora vedere Tiziano in mezzo alle bandierine e agli ombrellini che passano davanti? No. Allora dobbiamo inventare il domani e l’Italia è un paese laboratorio, più della Francia, che sta pagando l’accentramento totale. L’Italia può ipotizzare una serie di luoghi decentrati dove un percorso minimo è più gradevole perché si conclude al ristorante: uno va a Cremona, vede un piccolo pezzo e si ferma a mangiare. Poi bisogna immaginare anche dei grandi sistemi di mostre, che sono dei momenti catartici. Uno deve dire alla Maestà di Duccio: "Sei stata qua tranquilla fino ad ora, ma adesso vai a lavorare per un anno". Ma siccome ormai è difficile trovare sponsor privati, i Comuni impegnano i soldi per fare le mostre (che danno visibilità) e poi non ne hanno per pagare i custodi dei musei… Bisogna fare le mostre calcolando che possono essere di due generi: a basso prezzo e ad alto tasso di ricerca; ad alto prezzo e ad alto tasso di pubblico. Io ho fatto la mostra di Magnasco, è costata 780 milioni e ne ha incassati 950, perché l’ho prodotta sul tavolo del mio ufficio in Comune. Le istituzioni devono rivedersi e ridiscutersi. Per la mostra di Varlin sono andato con l’autista del Comune (roba fuori dalle regole, roba antisindacale), noi due in macchina a Stampa, con la pala abbiamo spalato la grangia, abbiamo tirato giù i quadri e abbiamo fatto la mostra, che è costata 50 milioni e ne ha incassati 80. Dicono che i costi sono aumentati a causa dell’11 settembre… Palle. Ancora oggi io le faccio una mostra con 100 milioni. E perché non la chiamano? L’attuale amministrazione di Milano mi odia fino in fondo. Ci sarebbero molte cose da migliorare anche nel privato. Sto pensando a che cosa si possa fare per Finante che si sta rigenerando ancora una volta, dopo la crisi Corbelli, rimasto con una quota azionaria, ma non più con le funzioni. È necessario che rimanga una casa d’aste italiana; Sotheby’s e Christie’s sono bravissime, ma si capisce che non sono di qua. Conduco una grande battaglia in difesa del diritto italiano di fare aste. Anche il collezionismo è esterofilo… Non ne posso più che tutte le signore milanesi scoprano Anselm Kiefer 25 anni dopo, quando non conta più niente, che pensino che l’arte sia solo Cattelan perché lo hanno conclamato a Londra. Saremo di periferia, ma siamo la periferia che per 28 secoli ha fatto l’arte. Bisogna tirare su la bandiera: adesso che il XX secolo è chiuso cominciamo a renderci conto che abbiamo prodotto roba seria, non solo cose di periferia, ma non ne abbiamo avuto coscienza. Qual è la sua ricetta per Milano? La città deve darsi una dimensione amministrativa pari alla sua dimensione reale. Non è possibile che una città frequentata da 5 milioni di persone al giorno sia governata da 950. dobbiamo dare il voto ai marocchini, inglobare i 15 milioni comuni intorno a Milano, fare la città metropolitana, chiudere Palazzo Marino, fare il Senato di una Milano allargata e metterlo al Castello Sforzesco. Si immagina quanti sarebbero di nuovo pronti a entrare nella rissa politica per essere Senatori al Castello? Quindi ne fa una questione estetica? Ma certo! La politica è sempre una questione estetica.